Rientro al lavoro dopo la maternità: mobbing e discriminazione
Più del 70% delle neomamme torna al lavoro dopo i mesi di maternità. Per molte, però, il ritorno alla vita lavorativa corrisponde all'inizio di un vero e proprio calvario. Anche laddove sono protette da contratti che ne tutelano il non licenziamento. Tra mobbing e discriminazioni, un'inchiesta di Espresso sul rientro al lavoro dopo la nascita del bambino.
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di Alessia Altavilla Se la legge sulla maternità è una delle migliori in Europa dal momento che, in teoria, garantisce alla neomamma non solo la possibilità di prendersi un periodo di riposo prima del parto, ma di potersi godere il proprio figlio anche nei mesi successivi, con uno stipendio pagato al 100% per tutti i primi tre mesi di vita del bambino e al 30% per quelli successivi (ovviamente, quando la situazione contrattuale è regolata e rispetta la legge in corso), differente è la situazione quando la mamma torna al lavoro.
Non sono, infatti, leggende le storie in cui si racconta che molte donne, all'atto della firma del contratto, vengono obbligate a firmare lettere di dimissioni in bianco, lettere che magicamente fanno la loro comparsa quando la neomamma torna al lavoro (dal momento che la legge vieta di licenziare una donna incinta).
E, comunque, senza arrivare a questi casi estremi (e illegali), il ritorno al lavoro è per molte donne fonte di stress, vessazione, sopprusi. Che lo rendono emotivamente e praticamente più complicato di quanto dovrebbe, effettivamente, essere in situazioni di normalità.
Un'inchiesta dell'Espresso di recente pubblicazione evidenzia quanto, nei fatti e nei dati, sia tragica la situazione in Italia.
Laddove, infatti, non ci trova di fronte a situazione di licenziamenti più o meno obbligati, spesso sono atteggiamenti di mobbing a farla da padrone: donne che tornano al lavoro e vengono spostate in 'posizioni' meno competitive, trovano la loro scrivania occupata da persone più giovani e disponibili a fare straordinari e orari lunghi, sono costantemente accusate per la scelta familiare fatta.
La maggior parte dei datori di lavoro sono convinti che il fatto di avere avuto un figlio e, comunque, di essere madre rappresenti un handicap per l'azienda. Laddove la donna non venga vessata, se le va bene, la sua maternità, le sue esigenze di madre, vengono completamente messe da parte.
Ci sono donne che continuano a fare il lavoro di prima, al prezzo, pesantissimo, di dover di fatto rinunciare alla loro famiglia. Alla possibilità, anche, di prendersi cura del proprio figlio.
E così via a orari lunghi, riunioni fissate nel tardo pomeriggio o di prima mattina, spostamenti che non tengono conto del fatto che una donna possa avere voglia e bisogno, la sera, di tornare a casa dalla propria famiglia.
In una società fortemente maschilista come la nostra, dove il lavoro del padre non viene mai o quasi messo in discussione e o dove la legge sulla paternità sfiora il ridicolo, tutto questo ha un peso enorme sulle scelte che molte donne si trovano costrette a fare.
Tenendo anche presente che mancano completamente le infrastrutture, in alcuni casi, per facilitare il compito delle famiglie (asili nido, asili nido aziendali, bonus reali per chi assume una baby sitter...) e che il concetto di flessibilità, nel corso degli anni, è venuto a significare tutto fuorché quello che davvero dovrebbe significare - possibilità di gestirsi il proprio lavoro, laddove possibile, in piena autonomia e, appunto, in modo flessibile - il mondo del lavoro in rosa vessa ancora in condizioni di gravi disparità, vittima di ingustizie di cui, poi, fanno le spese le madri, le donne. Che spesso abbandonano proprio per l'impossibilità di conciliare il tutto.
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