Assunta al nono mese di gravidanza
Sta facendo il giro del web la storia di Martina, assunta al nono mese di gravidanza, e del suo nuovo capo che ha spiegato in un'intervista le ragioni della scelta. Ecco la storia.

Sta facendo il giro del web la storia di Martina, assunta al nono mese di gravidanza, e del suo nuovo capo che ha spiegato in un'intervista le ragioni della scelta. Ecco la storia.
Lei si chiama Martina. Ha 36 anni. Un bimbo in arrivo a breve e un nuovo datore di lavoro per il quale inizierà a lavorare solo tra cinque mesi. Ovvero a maternità obbligatoria conclusa.
Eh sì. Perché Martina Camuffo è una delle poche donne italiane che in gravidanza, anziché perdere il lavoro, subire il mobbing da parte di capi e colleghi, vedersi negare i diritti basilari, è stata assunta.
La sua storia, proprio per l’eccezionalità del caso, ha fatto il giro del web ed è diventata una sorta di emblema di comportamento corretto, rispetto e lungimiranza.
Protagonisti, oltre alla donna, Samuele Schiavon e Stefano Serena, responsabili dell’azienda The Creative Way con sede in Veneto (tra Padova e Venezia), specializzata in web design e web development, e per la quale Martina è stata assunta.
A spiegarne le ragioni Samuele che racconta la sua personale esperienza e lo smacco subito da sua moglie quando, incinta del primo figlio, ha perso il lavoro proprio a causa del suo stato interessante.
L’uomo, invece, spiega che nel caso di Martina hanno prevalso il curriculum e le competenze che gli hanno permesso di effettuare una scelta priva di pregiudizi.
Naturalmente, non sono mancate le polemiche. Alcuni dipendenti ed ex dipendenti dell’azienda in questione hanno spiegato sui loro profili social che i motivi di una scelta così estrema sono da cercare non tanto nella lungimiranza dei responsabili e nel loro ‘buon cuore’, ma nella necessità di creare un caso e suscitare interesse intonro all’azienda, secondo una precisa strategia di marketing e comunicazione.
Ci hanno anche tenuto a precisare che tanta saggezza e filantropia non sono, nella realtà, accompagnate dai fatti, dal momento che, sempre secondo quanto si legge dalle perole degli ex dipendenti, molti di loro aspettano ancora di essere pagati, il tfr, gli arretrati.
La verità è, però, in questo caso poco importante. Fosse anche uno spot, un’operazione di marketing divenuta virale, il dubbio rimane comunque e apre un precedente al quale, si spera, molte aziende vorranno dar seguito: considerare la maternità una risorsa e non una condanna e accettare che nel criterio di valutazione di un candidato le sue qualità e competenze vengano prima del “stato”.
Non soltanto. Solo partendo dalle competenze è possibile superare le differenze tra uomo e donna ponendo quest’ultima allo stesso livello maschile e con le stesse identiche possibilità di entrare a far parte di una realtà lavorativa a prescindere da quello che, per natura, è chiamata a fare.
La gravidanza, insomma, ci si auspica che non debba più essere considerata un fattore discriminante o un handicap ma, semplicemente, uno stato, una fase della vita che non per questo rende inetta la donna al lavoro.
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