A cena fuori con il neonato

Lo so. Siamo di quegli adulti che portano fuori i bambini la sera. Lo so che prima che nascesse Cossy ero scettica e quasi certa che non lo avrei fatto. Lo so.
Ma, mi dico, dal momento che lo fanno tutti (stiamo parlando dei miei amici), perché solo lei dovrebbe rimanere a casa?

Inoltre, mi ripeto, scegliamo locali bimbo friendly (che non è che a Milano ce ne siano a dozzine. Ma qualcuno lo abbiamo individuato a furia di girare), dove ci sono altri folli che portano fuori i bimbi la sera.
Quindi fastidio non ne diamo a nessuno.
Poi, continuo ad autoconvicermi, lei crolla sulla carrozzina alle nove. In fondo per lei non cambia molto. E quando sarà più grande e sul passeggino non ci starà più, vedremo.
E così, a furia di autoconvincimenti, mi ritrovo a passare una serata con 28 adulti, 5 nani tra i 2 e i 4 anni che corrono, e 5 carrozzine da parcheggiare.
E hai voglia a chiedere di scaldare biberon e cambiare pannolini!
Sembra una follia. Ma è divertente e ridicolo da morire. Sembra un’enorme festa per un battesimo laico. O qualcosa del genere.

Sta di fatto che questa volta l’occasione era ghiotta. Il ritorno in Italia di due coppie di amici, anch’essi neogenitori, che non si vedono da tanto, troppo tempo. Non esserci era del tutto impensabile.
Il confronto scatta spontaneo. Com’è, come non è, dorme, non dorme, mangia, quanto pesa, parla, cammina, suona il pianoforte, vota, pilota aerei ecc. Simpatiche amenità di questo livello.
E, poi, la fatidica domanda a una delle due “madri straniere”: come va col nido? (vivono in Svizzera. La maternità svizzera prevede solo qualche mese a casa con il bambino e poi si torna a lavorare. I servizi all’infanzia, dice la suddetta mamma, non mancano di certo. Ma mandare il proprio figlio al nido con un’età inferiore ai sei mesi, da quelle parti, è quasi una scelta obbligata).
Quindi, come va col nido?
E la risposta: bene. In Svizzera hanno un metodo un po’… “svizzero”. Niente baci, niente contatto fisico, niente abbracci. Inoltre, nelle attività come la pappa, la nanna o il cambio, le educatrici si occupano di un bambino per volta (il rapporto, ci spiega, è di 5 a 1). Il che significa, che se stanno dando da mangiare a uno, gli altri rimangono da soli e devono imparare ad autogestioni. Se qualcuno piange, continua, l’educatrice si volta e gli spiega, gentilmente ma senza troppe moine, che in quel momento è impegnata con un altro bambino. E lui deve aspettare.
Occhi sgranati e mascella cascante (le nostre facce mamma-chiocciate-che-già-pensano-a-quale-atto-legale-portare-avanti-capitasse-ai-loro-figli).
Quindi, chiediamo, che fa?
E lei: Semplice. Lo lascia piangere. Anche per 20 minuti di fila..
E su quel “20 minuti di fila” penso alle tre settimane di inserimento che mi sono state chieste presso alcune strutture che ho visitato.
Penso a cosa sarebbe successo in Italia se una mamma avesse saputo che il suo bambino è stato lasciato da solo a piangere per 20 minuti di fila.
Penso a Cossy che piange per 20 minuti di fila.
Poi guardo il bimbo della mia amica. Sereno e “pacioso” tra le braccia del padre, non un lacrima, un beh, un piantino. In mezzo a tutta quella confusione. E così domando: e lui? Ci va volentieri?
E la risposta: Sì. Alla fine si diverte tantissimo. Ignorando le sue educatrici

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